Alla scoperta del curriculum nascosto

LABORATORIO DIDATTICA “IMPLICITA” E SINERGIE COOPERATIVE
COORDINATRICE: Giulia Caminada
giulia.caminada@tiscalinet.it

L’unico vero viaggio di esplorazione non consiste nell’andare in posti nuovi,
ma nell’avere altri occhi.
M. Proust

Cambiare non significa gettare via tutto e sostituirlo con tutt’altro.
Ci si può evolvere cominciando col riorganizzare in maniera diversa
ciò che esiste già nella propria testa …

ALLA SCOPERTA DEL CURRICULUM NASCOSTO
Nei processi di apprendimento e nelle relazioni formative e educative esiste un curricolo esplicito o “scoperto” (ciò che è più immediatamente visibile, valutabile e modificabile; le scelte intenzionali del docente in merito agli obiettivi, ai contenuti e alle metodologie della propria azione didattica) e un curricolo implicito o “nascosto” perché composto da tutto ciò che le persone coinvolte a vario titolo nel lavoro scolastico portano come loro contributo in termini di convinzioni, atteggiamenti, aspettative, motivazioni. Curricolo implicito (“hidden curriculum”) è un termine che fa riferimento alla presa di coscienza – negli ultimi decenni – del valore formativo di quelle dimensioni dell’azione didattica generalmente non tematizzate dagli insegnanti e prive di una esplicita intenzionalità progettuale. Con l’espressione si è inteso richiamare l’insieme delle componenti dell’azione formativa della scuola non oggetto di una progettualità esplicita, da collocare al fianco, ma spesso in contrasto.
Anche se questo “curricolo nascosto” è largamente sconosciuto, raramente discusso, spesso sottovalutato (anche per l’obiettiva difficoltà di farne oggetto di indagine esplicita), gli atteggiamenti, i valori, le teorie e le supposizioni riguardo all’insegnamento e all’apprendimento che gli insegnanti si costruiscono nel tempo e che portano con sé in classe influenzano gli atteggiamenti, che a loro volta contribuiscono a determinare le decisioni e le azioni e i comportamenti di insegnanti e studenti di fronte ai compiti di apprendimento.

PRIMO PASSO NEL TENTATIVO DI SPIEGARE IL RUOLO DELLE CONVINZIONI
Quando insegnanti e studenti entrano in classe attivano una serie di pre-conoscenze, schemi, idee precostituite su come si insegna e come si impara, quali sono i rispettivi ruoli del docente e del discente e così via. Queste pre-conoscenze sono il risultato di tutte le nostre esperienze precedenti, sia come studenti che come insegnanti, del nostro retroterra socio-culturale, delle teorie pedagogiche e didattiche implicite ed esplicite che abbiamo avuto occasione di conoscere e sperimentare e di numerosi altri fattori personali (Woods, D., Richards, J., Golombek, P.R.,). Le convinzioni sono per loro natura caratterizzate da soggettività e ciò che personalmente ritengo vero può costituire solo una mia personale filosofia, una mia teoria implicita. Studenti e insegnanti e la pubblica opinione possiedono una serie di “teorie ingenue”, “elementi di saggezza popolare”, “rappresentazioni mentali”, “immagini precostituite”, “quadri interpretativi” fino ad arrivare a miti e stereotipi ben radicati (Wenden, A., Richards, J., Holec, H., Doly A. M., Ridley, J.). Per proseguire in questa riflessione ci può essere d’aiuto il bel saggio di L. Mariani in Lingua e Nuova Didattica, Anno XXIX, No. 5, 2000 secondo il quale le convinzioni costituiscono un sistema di idee e valori profondamente radicati nella personalità e possono avere un diverso livello di consapevolezza sia da parte del singolo individuo che da parte delle persone con cui entra in contatto. Il “sé manifesto” è costituito da tutto ciò di cui sono consapevole riguardo a me stesso e di cui anche gli altri sono a conoscenza. Ad esempio, come insegnante posso avere a cuore la libera interazione tra gli studenti e la loro creatività: di questo posso essere conscio e ne possono nel contempo essere consapevoli studenti e colleghi – si tratta di una caratteristica molto “pubblica” del mio modo di concepire e mettere in pratica il mio personale approccio all’insegnamento. Il “sé segreto” comprende ciò che è a conoscenza di me stesso ma non degli altri, in quanto non posso (o non voglio) renderlo “pubblico”. Ad esempio, come insegnante posso trovarmi a disagio con l’uso del computer e sviluppare delle resistenze ad introdurlo nella didattica; di questo posso essere consapevole ma non desideroso di comunicarlo a studenti e colleghi forse perché temo di non essere compreso, di essere giudicato o di essere tagliato fuori da un gruppo più “convertito” alle nuove tecnologie.
Il “sé cieco” dove troviamo tutto ciò che di cui gli altri sono consapevoli ma che sfugge alla mia coscienza. Ad esempio, come insegnante posso parlare molto in classe e, in questo modo, togliere spazio ai miei studenti. Magari non sono consapevole di questa mia abitudine ed anzi, posso essere convinto che più parlo, più opportunità offro alla classe di aumentare la loro esposizione alla lingua, ad esempio. I miei studenti, tuttavia, potrebbero essere ben consapevoli di ciò e forse anche risentirsene o esserne frustrati, ma è come se io fossi “cieco” alle loro reazioni: è il mio “sé cieco” a cui non ho accesso.
La zona più “oscura” è costituita dal “sé nascosto”, ciò di cui né io né gli altri abbiamo coscienza. Ad esempio, come insegnante posso sviluppare con una certa classe un’atmosfera di reciproca simpatia, comprensione, fiducia, inclusione. Questi sentimenti possono essere molto reali e ben percepiti da me e dagli studenti senza che né io né loro sappiamo spiegarcene le ragioni, che rimangono ben al di sotto della linea della consapevolezza (Luft, J., Richards, J.).
Le convinzioni non costituiscono dunque un sistema strettamente individuale ma, al contrario, esse rappresentano, nella complessità dei livelli di consapevolezza, un legame essenziale tra il proprio “sé” e il mondo circostante; un filtro attraverso il quale il mondo viene costantemente fornito di significato e reinterpretato. Le convinzioni sono una lente che usiamo per dare il “nostro” senso a ciò che accade intorno a noi. Ciò significa che lo stesso evento, poniamo un compito di apprendimento proposto in classe, può essere interpretato in modo diverso da persone diverse (ad esempio, l’insegnante e gli studenti) che possiedono diversi sistemi di convinzioni.
Ciò che noi e i nostri studenti pensiamo riguardo all’insegnamento e all’apprendimento agisce come un filtro nell’attribuire significati a ciò che diciamo e a ciò che facciamo.
Dalle convinzioni e dagli atteggiamenti degli insegnanti e degli studenti DISCENDONO le decisionI delle persone
Attraverso le convinzioni noi percepiamo e reinterpretiamo le esperienze. Ma queste percezioni e reinterpretazioni non sono neutre: evocano sentimenti e reazioni, piacere o dispiacere, accettazione o rifiuto. Questi sentimenti si accompagnano inoltre spesso ad un qualche tipo di giudizio o valutazione: possiamo esprimere accordo o disaccordo, approvazione o disapprovazione e questo è il passo decisivo tra le convinzioni e la formazione dei relativi atteggiamenti. Gli atteggiamenti condizionano le nostre intenzioni, le nostre decisioni, le nostre azioni. I nostri comportamenti concreti così come quelli dei nostri studenti, vale a dire ciò che effettivamente accade in classe, sono soltanto la punta dell’iceberg. Sotto la superficie visibile delle azioni esistono le decisioni che prendiamo prima e durante le nostre lezioni. E queste decisioni, a loro volta, sono condizionate dai nostri atteggiamenti e dalle nostre convinzioni (Ridley, J.).

Il pROBLEMA DELLE RElazionI DI CONGRUENZA
Oltre alle sue relazioni con le scelte esplicite ed intenzionali, le dimensioni implicite hanno una forte valenza educativa in quanto incidono sul livello profondo dell’esperienza formativa, sui processi di attribuzione di significato e sulla struttura di personalità del soggetto. Tali dimensioni, infatti, determinano la materialità educativa, il contesto materiale, relazionale, valoriale entro il quale si sviluppa l’azione didattica e, inevitabilmente, ne condizionano il significato formativo: come afferma Mc Luhan “il medium è messaggio”. L’insieme di questi aspetti costituisce una vera e propria “pedagogia latente“, la quale veicola inevitabilmente un determinato modello educativo, più o meno congruente con quello dichiarato intenzionalmente. La separazione tra i due piani richiama la distinzione proposta da Watzlawich tra piano del contenuto e piano della relazione in un evento comunicativo, tra il “che cosa si dice” e il “come lo si dice”. Ciò che risulta interessante nell’analisi dell’allievo di Bateson sono le relazioni di congruenza o incongruenza tra i due piani e i loro riflessi sull’efficacia dell’atto comunicativo e sulla determinazione di vere e proprie patologie dei processi comunicativi. Anche nel caso della distinzione tra “curricolo scoperto” e “curricolo nascosto” diventano cruciali le relazioni di congruenza tra i due piani, il verificare quanto le dimensioni nascoste dell’azione formativa sono congruenti con gli obiettivi formativi che ci si è intenzionalmente posti e con le conseguenti scelte progettuali (selezione dei contenuti, definizione delle strategie, individuazione dei metodi e degli strumenti, modalità di valutazione, etc.).

UN APPROCCIO EPISTEMOLOGICO: LA CLINICA DELLA FORMAZIONE
R. Massa, filosofo dell’educazione recentemente scomparso, ha introdotto nel campo della ricerca educativa un nuovo modo di guardare alle pratiche dell’educazione. Ha istituito presso l’Università Bicocca la Clinica della Formazione nella Facoltà di Scienze dell’Educazione, proponendo un approccio educativo che si avvicina alla concretezza di quella che lui amava chiamare “materialità educativa”, cioè l’insieme delle determinazioni concrete dell’agire educativo.
La Clinica della Formazione è un approccio pedagogico particolare che si presenta come quel tipo di sapere che esplora i più diversi contesti educativi e formativi cercando di individuare il “dispositivo pedagogico”, cioè l’insieme di pratiche che strutturano gli spazi, i tempi, i soggetti, le “latenze pedagogiche”, gli investimenti relazionali, le dinamiche affettive.
Riccardo Massa aveva inoltre trattato il tema della comunicazione sotterranea, dell’invisibilità, del silente che sottende la decostruzione delle latenze pedagogiche, cioè delle rappresentazioni e degli affetti, delle strutturazioni simboliche, delle dinamiche relazionali e delle proiezioni, ecc. Riappropriarsi del metodo clinico nella formazione, allora, attuando le indicazioni di Massa, che sottolineava la centralità del setting formativo, il valore dell’irriducibilità del soggetto, la complessità, la ricchezza, le significazioni profonde dell’agire educativo e la necessità della supervisione sul campo può essere una via di ricerca. Il metodo clinico proposto non coincide con il metodo psicoterapeutico, con il disagio e la malattia, ma è un approccio transdisciplinare, individuale, concreto che raccorda la vita e la formazione. In questo nostro percorso di ricerca, di Massa portiamo con noi:
– La figura del rispecchiamento. Villa dei Misteri di Pompei; il giovane satiro che si specchia nella coppa e vede riflessa l’immagine della maschera del maestro da giovane, tenuta da un allievo iniziato e il maestro, il vecchio sileno, che guarda altrove – o dello sguardo accogliente e valorizzante, che simbolizza la relazione feconda allievo-maestro, dove il primo aiuta a diventare ciò che è il secondo‏;
– La figura del chiasmo. L’incrocio retorico che consente di scoprire il nuovo, attraverso le relazioni interne che il linguaggio mette in campo. L’educando diventerà educatore in forza dell’educando che è stato e in forza dell’educatore che l’ha affiancato‏;
– La clinica della formazione come messa in asse dei quattro tipi di “lateres”, mattoni, per tematizzare il mondo della formazione e il suo rapporto con il mondo della vita:
1. la latenza affettiva delle emozioni e degli affetti;
2. la latenza referenziale del contesto;
3. la latenza cognitiva delle teorie del mondo;
4. la latenza pedagogica delle strategie educative ;
– L’incrocio mondo della formazione/mondo della vita e dialettica tra azione formativa e progettazione formativa (scarti, incidenze, discrepanze; loro conoscibilità e loro significati latenti)‏.

CONCLUSIONE. La didattica implicita come metodo e pratica pedagogica dalla grande potenzialità educativa
Proviamo a pensare a noi stessi come mediatori di procedure di apprendimento che siamo invitati a proporre e negoziare con i nostri studenti, in modo che a tutti venga offerta la possibilità di conoscere tante opzioni per poter imparare a scegliere e dunque a costruirsi il proprio personale saper apprendere.
Proviamo a pensarci come persona che cambia nel tempo anche grazie alle strategie, alle convinzioni e agli atteggiamenti di cui sa diventare consapevole.
Proviamo a pensarci nel ruolo di osservatori attenti di noi stessi, dei nostri studenti e dei compiti di apprendimento, cioè dei materiali, delle attività, delle situazioni che mettiamo in atto giorno per giorno. Osservare in questo senso vuol dire rendere più esplicito e trasparente, attraverso la riflessione, il significato delle esperienze che facciamo e che facciamo fare.
Proviamo a diventare connettori di conoscenze e di competenze per far ritrovare il filo conduttore delle proprie esperienze a scuola sia ai propri studenti, sia ai propri colleghi rompendo gli argini fra le discipline.
Proviamo a lavorare in un approccio a spirale e ad avere un occhio clinico per saper diagnosticare e monitorare i continui cambiamenti.
La ricchezza e la complessità di questi ruoli in un certo senso a noi familiari, per altri versi invece magari intriganti e disorientanti, ci può lasciare perplessi. Da una parte sentiamo l’esigenza e l’urgenza del cambiamento, dall’altra parte capiamo che questo cambiamento è innanzitutto dentro di noi e nei rapporti con le persone, dunque è un cambiamento che richiede i suoi tempi, che non può essere forzato più di tanto.

1. Come esplorare convinzioni e atteggiamenti
Quali strumenti abbiamo a disposizione per “portare alla superficie” le nostre convinzioni e quelle dei nostri studenti? La rilevazione diretta di informazioni e l’osservazione. Possiamo raccogliere direttamente informazioni da noi stessi, dai nostri colleghi e dai nostri studenti. Questionari, interviste, scale di valutazione, diari sono strumenti che offrono la possibilità di “far parlare” o “far scrivere” le persone, di ascoltare o leggere ciò che hanno da dire, di creare tempi e spazi di riflessione personale, ma anche di verbalizzazione e quindi di condivisione con altri. Il confronto e la discussione conseguenti consentono poi di riconsiderare le proprie convinzioni e i propri atteggiamenti, e magari anche di entrare nell’ottica di modificarli o aggiornarli alla luce di quanto emerge. Tuttavia, una caratteristica delle convinzioni è il loro variabile livello di consapevolezza e quindi di accessibilità diretta. Ciò che non può essere scoperto in modo diretto è a volte più accessibile attraverso l’osservazione di comportamenti. Dall’osservazione di ciò che noi facciamo e di ciò che i nostri colleghi e i nostri studenti fanno, nel concreto delle attività di classe, possiamo risalire alle decisioni e alle scelte che sottostanno alle azioni, e dalle decisioni agli atteggiamenti e, infine, alle convinzioni.
L’(auto)osservazione può essere più o meno strutturata, ma generalmente si avvale di alcuni strumenti che permettono una più agevole focalizzazione su elementi specifici e una descrizione più puntuale dei comportamenti, oltre ad offrire una guida alla loro interpretazione e discussione. Esempio delle liste di controllo – un possibile elenco, certamente non esaustivo, di domande che possiamo farci, in quanto insegnanti, sulla nostra gestione di un particolare compito: esplicitare e socializzare quelle che riteniamo essere le possibili convinzioni alla base delle nostre scelte e dei nostri comportamenti.
Raccolta diretta di informazioni e osservazione possono integrarsi: un questionario può fornire una prima “mappa” delle nostre convinzioni e atteggiamenti, permettendoci anche di fare alcune “inferenze” sui nostri modi di prendere decisioni e fare scelte; l’osservazione dei nostri comportamenti può in seguito fornirci utili elementi di conferma, smentita o messa a punto delle nostre inferenze, fornendoci un’ulteriore chiave di accesso a convinzioni e atteggiamenti che altrimenti potrebbero anche rimanere al di sotto della nostra consapevolezza (Palmer, D.J., Goetz, E.T., Wenden, A.).

2. Pensare alla nostra pratica quotidiana e a quanto convinzioni e atteggiamenti influiscono su
– la gestione dello spazio, in relazione sia alla varietà e alle caratteristiche degli ambienti impiegati nell’azione didattica, sia alla strutturazione dello spazio aula (disposizione dei banchi, arredi, allestimento di angoli o spazi dedicati, collocazione dei materiali didattici, ….);
– la gestione del tempo, in rapporto alla successione del processo didattico (discipline, docenti, modalità di lavoro) e alla strutturazione più o meno distesa o concentrata delle attività didattiche;
– le modalità di raggruppamento degli allievi, nell’alternanza di attività individuali, di coppia, di piccolo gruppo, di grande gruppo;
– il grado di strutturazione delle proposte didattiche, in relazione all’autonomia attribuita agli allievi nella gestione delle diverse attività;
– le regole, dichiarate o meno, che strutturano le modalità di relazione e di funzionamento del gruppo classe;
– i canali comunicativi attraverso cui si sviluppa la relazione tra insegnante e allievi, con particolare riguardo alla comunicazione non verbale e ai tratti prosodici e soprasegmentali della comunicazione verbale.

3. Qualche indicazione su come procedere nella riflessione in riferimento alla didattica implicita
– Dobbiamo pensare alla formazione come teoria, ricerca, pratica in modi attenti all’esperienza esistenziale e alla storia di formazione complessa e complessiva che attraversa chi si trova ‘in formazione’, in grado di coglierne concretamente i significati espliciti e impliciti, le latenze e i dispositivi pedagogici. Gli aspetti latenti, residuali, materiali, affettivi, inconsci costituiscono, in questa prospettiva la sorgente profonda dei processi formativi e delle dinamiche educative.
– Dobbiamo portarci al cuore delle esperienza di didattica implicita che abbiamo vissuto e che giochiamo nel nostro ruolo sia di allievi che di insegnanti in quanto a livello più o meno cosciente sono struttura e processo specificamente presenti in ogni esperienza caratterizzata da intenti di tipo formativo, per svelarne la latenza pedagogica fondamentale.
– Dobbiamo acquisire conoscenze sui modelli impliciti di performance che guidano, più o meno consapevolmente, l’azione formativa e educativa.
– Dobbiamo osservare e comparare le nostre modalità di azione con quelle di altri professionisti dello stesso ambito professionale o di quelli limitrofi.
– Dobbiamo poterci criticamente affrancare dagli agiti che spesso incidono negativamente sulle dinamiche relazionali e sugli esiti del lavoro formativo individuale e in equipe (“Ho avuto un cattivo maestro, è stata una buona scuola”).
– Dobbiamo verificare il modo proprio di ognuno di giocare e interpretare ruoli sfaccettati e multidimensionali.
Spunti operativi didattica implicita e I CARE

1. La classe come laboratorio? Fra persistenza e cambiamento
1.1 La cultura laboratoriale come apprendimento: la classe come comunità di apprendimento. La prospettiva della speciale normalità. Un arricchimento della didattica ordinaria (implicita) e non solo delle risposte speciali. Non si tratta di attivare il processo di normalizzazione del soggetto in situazione di handicap, ma di operare nel rispetto delle sue caratteristiche, riconoscendone sia le potenzialità che il deficit, costruendo un rapporto di comunicazione basato sulla differenza.
1.2 La cultura laboratoriale come relazione: (il doppio legame – dell’alunno disabile verso la classe; – della classe verso il compagno diversamente abile)

2. Gli stili di apprendimento e di insegnamento
2.1 Semplificazione del programma ma non diversificazione
2.2 Individuazione di mediatori didattici che fanno bene sia a chi ha difficoltà (aiuto) sia a chi non ne ha (rinforzo)
2.3 Gratificazione di chi è in difficoltà dal fatto di svolgere le stesse attività degli altri)

3. Lavorare al metacognitivo: non solo l’esperienza ma il racconto dell’esperienza, la verbalizzazione di quanto accade
3.1 L’effetto Pigmalione (“do ut des”)
3.2 L’essere dentro una storia:
– la classe come storia di se stessa (Bruner: psicologia culturale);
– la crescita come bisogno di un’identità (Film: L’uomo senza volto – Mel Gibson);
– incontrare non è trattare (un modello pedagogico che tenga conto della complessità del tessuto sociale, culturale, affettivo e del modo di essere nel mondo dei vari soggetti e del loro atteggiamento verso il futuro rimanda a una concezione di apprendimento che implica la capacità di avere memoria della propria storia, di immaginare, anticipare quella futura. In questa prospettiva basata sulla possibilità educativa di collegarsi alla pluralità della esperienze, sul raccordo tra visibile e invisibile, cioè tra l’esperienza immediata e l’evocazione, si può costruire quell’incontro nuovo con il soggetto in situazione di handicap – A. Canevaro).
3.3 Il rischio educativo
3.4 …

ovvero

Un curricolo può darci qualche certezza ma non ci può fare dimenticare la necessità di saper tollerare l’ambiguità e l’incertezza. Nello stesso tempo l’incertezza dei grandi sistemi ci ricorda il valore delle piccole cose, dei gesti quotidiani che, se rivisti fuori dalla routine, possono avere una carica quasi rivoluzionaria. In un sistema dove ogni piccolo evento può condizionare i processi globali, una discussione in classe, un piccolo questionario, un’attività di riflessione, un’esperienza di lavoro di gruppo possono introdurre un elemento di sana turbativa e l’avvio a cambiamenti secondo la teoria dei “piccoli passi”. Per non dover dire:
For want of a nail / Per mancanza di un chiodo
The shoe was lost; / Si perse il ferro di cavallo;
For want of a shoe / Per mancanza di un ferro
The horse was lost; / Si perse il cavallo;
For want of a horse / Per mancanza di un cavallo
The rider was lost; / Si perse il cavaliere;
For want of a rider / Per mancanza di un cavaliere
The battle was lost; / Fu persa la battaglia;
For want of a battle / Per mancanza di una battaglia
The kingdom was lost; / Fu perso il regno;
And all for the want / E tutto per la mancanza
of a horse-shoe nail. / di un chiodo per ferro di cavallo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *